R𝗶𝘀𝗮𝗿𝗰𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗱𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗳𝗮𝘃𝗼𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗶 𝗡𝗜𝗣𝗢𝗧𝗜 per le sofferenze e i patimenti da loro sopportati a seguito della 𝗺𝗼𝗿𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗻𝗼𝗻𝗻𝗼



L’incredibile ordinanza del Tribunale di Napoli Nord che non ha convalidato lo sfratto per morosità nonostante l’occupazione dell’immobile da parte di alcuni stranieri arrivati in Italia.
Nel 2014 la proprietaria di un immobile sito in un comune dell’hinterland napoletano decideva di mettere in fitto la propria seconda casa.
Si faceva avanti un’impresa sociale impegnata nell’accoglienza degli stranieri in Italia e dei soggetti svantaggiati, attiva nel progetto ministeriale SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Il rapporto contrattuale procedeva senza intoppi fino a inizio 2020, quando l’impresa decideva improvvisamente di non pagare l’annualità 20-21.
Soltanto nel mese di luglio, poi, alla proprietaria veniva notificato il recesso da parte dell’Ente il quale affermava di non avere più bisogno dell’immobile in quanto il progetto SPRAR era ormai terminato.
La signora, che nulla aveva ricevuto per i mesi da marzo a luglio 2020, ha chiesto all’impresa il pagamento dei canoni non corrisposti ma, soprattutto, la restituzione dell’immobile.
Ed è su questo punto che la vicenda si è complicata: “la casa non può essere liberata”, perché ormai finita nella disponibilità di una famiglia di stranieri arrivati in Italia, introdotti nell’appartamento dalla stessa impresa nel giugno 2019.
A quel punto la proprietaria dell’immobile non ha potuto far altro che intentare causa all’impresa, chiedendo al Tribunale di Napoli Nord la liberazione della casa occupata dagli stranieri e il pagamento dei canoni.
Secondo la legge italiana, in sintesi, il giudice può convalidare lo sfratto anche provvisoriamente e prima di un (lungo) giudizio di merito.
Questo può avvenire sia:
Dice l’art. 665 c.p.c., però, che lo sfratto può non essere convalidato anche in presenza di “gravi motivi”, di volta in volta valutati dal giudice.
Ebbene, il Tribunale di Napoli Nord, con un provvedimento che si presta a molte osservazioni critiche, ha deciso di non convalidare lo sfratto.
Non perché l’opposizione dell’impresa sociale sia stata fondata su prova scritta, ma perché, afferma letteralmente il giudice:
“gli stranieri abusivamente stabiliti nell’immobile in questione sono da considerarsi soggetti in difficoltà o comunque dei richiedenti asilo.“
Questa loro condizione, a detta del Tribunale, costituirebbe di per sé stesso il grave motivo di cui parla l’art. 665 c.p.c.
L’ordinanza, quindi, ha rinviato la causa nel merito al maggio 2021 e l’immobile è rimasto, nel frattempo, nella disponibilità della famiglia di stranieri.
Il tutto, senza riconoscere alcun rilievo ai diritti della proprietaria che, nel mentre, sopporterà soltanto gli oneri e i costi derivanti dalla seconda casa!
Soprattutto, nulla è stato disposto nei confronti dell’impresa sociale, a ben vedere unica vera responsabile di un simile guazzabuglio giuridico.
Di questa pronuncia, infatti, stupisce la totale assenza di riguardo nei confronti delle esigenze del proprietario, sul quale viene apertamente scaricato un fardello sociale enorme.
Rispetto ad un progetto ministeriale (lo SPRAR), al coinvolgimento di comuni e imprese afferenti al terzo settore – e, quindi, sottoposte almeno teoricamente a stringenti controlli – la pronuncia in esame non ha saputo fare di meglio che domandare al comune cittadino, quasi “colpevole” di essere proprietario di una seconda casa, di sopportare le conseguenze gravissime di un fenomeno tanto complesso come quello della protezione internazionale e dell’immigrazione.
Rispetto a una pronuncia che non ammette impugnazioni, quindi, cosa potrà fare la proprietaria in attesa del giudizio?
A seguito di questa pronuncia, la signora non potrà che aspettare il maggio venturo per l’inizio della causa di merito, la cui durata non è calcolabile in anticipo e che sicuramente terrà banco per qualche anno.
Nel frattempo la casa risulta inutilizzabile e occupata da stranieri in condizioni effettivamente svantaggiate, i quali nulla potranno mai versare in favore della proprietaria.
Tutto questo, purtroppo, grazie ad una macchina Statale e comunale latitante e un’impresa sociale irresponsabile, coadiuvate da una giustizia che a volte si fatica a chiamare tale.
Come ormai è ben noto, a seguito del diffondersi dell’epidemia virale, il Governo italiano ha risposto all’emergenza con l’emanazione di una serie di provvedimenti restrittivi delle libertà personali.
Così, con successivi decreti del Presidente del Consiglio (“DPCM”) è stato stabilito il divieto di spostamento per tutti, tratte che per comprovate esigenze lavorative, di necessità o di salute.
Queste misure, in origine limitate alla sola Lombardia, sono state successivamente estese all’intero paese con il DPCM del 09.03.2020.
Con un ulteriore DPCM del 22.03.2020 è stato poi imposto il “divieto di trasferimento o spostamento ad altro Comune, con mezzi di trasporto pubblici o privati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o per motivi di salute”, conservando solo per gli spostamenti all’interno del medesimo Comune le disposizioni precedenti.
Dall’assetto così delineato, quindi, si evince che per muoversi entro i confini comunali è bastevole versare in una situazione di “necessità”, mentre per transitare da Comune a Comune è necessario che ricorra un’esigenza di “speciale urgenza”.
Si è immediatamente posto un problema di ordine familiare.
In caso di separazione e/o divorzio, possono i genitori spostarsi per vedere i propri figli e magari portarli con sé?
All’indomani dei provvedimenti, il Governo, tramite il proprio sito web, ha immediatamente chiarito in maniera affermativa che:
“gli spostamenti per raggiungere figli minorenni presso l’altro genitore o per condurli presso di sé sono consentiti in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o di divorzio”.
A tali chiarimenti ha fatto subito seguito una pronuncia del Tribunale di Milano, datata 11 marzo, con la quale è stato stabilito che
“gli spostamenti per raggiungere figli minorenni presso l’altro genitore o per condurli presso di sé sono consentiti in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o di divorzio”.
Ebbene, anche alla luce del successivo DPCM del 22 marzo, il quale come già detto ha ulteriormente ristretto la libertà di movimento introducendo il requisito della “speciale urgenza” per gli spostamenti da Comune a Comune, appare senz’altro giustificabile lo spostamento del genitore che si reca in visita presso il proprio figlio residente altrove, essendo questo un diritto esercitabile ai sensi dell’art. 51 c.p.
Il chiarimento del Governo non lascia margini di interpretazione e, coerentemente, la conclusione deve ritenersi valida anche per tutti quei casi in cui non sia intervenuta ancora una sentenza di separazione o divorzio ma, ad esempio, sia stato raggiunto un accordo a seguito di negoziazione assistita.
In difetto di una qualche formalizzazione, infatti, sembrerebbe non potersi applicare il chiarimento del Governo, il quale fa espresso riferimento alle condizioni stabilite da un provvedimento di separazione.
Nonostante tale apparente lacuna, il dubbio può essere sciolto ricorrendo ai principi di diritto vigenti nel nostro ordinamento.
La necessità di conservare il rapporto costante con entrambi i genitori da parte del minore integra senz’altro la situazione di (urgente) necessità richiesta dalla norma, essendo il diritto del minore alla bigenitorialità un interesse primario sancito a livello legislativo (artt. 315 bis e 337 ter c.c.) e internazionale (artt. 3 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo).
Chiaramente, occorrerà pur sempre un bilanciamento degli interessi onde evitare di incorrere in fastidiose sanzioni.
Da un lato, quindi, dovrà essere garantito tale importate diritto, ma da altra prospettiva dovrà essere comunque assicurata la salvaguardia fisica del minore stesso, impedendo che venga esposto a rischi inutili.
Per questo, quindi, dovranno essere limitati tutti quegli spostamenti non necessari ed evitabili.
Altro aspetto fondamentale legato all’esercizio del diritto è quello di poter “comprovare” la sussistenza delle ragioni di necessità e urgenza.
In assenza di un provvedimento che attesti il diritto di visita, sarà utile poter almeno dimostrare l’esistenza di una situazione di separazione, in qualsiasi modo, nonché provare la presenza di figli minori e la diversa residenza di essi.
Questo potrà avvenire mostrando – se possibile – anche accordi non ancora formalmente raggiunti, come un atto di negoziazione non trasmesso o una lettera firmata dagli avvocati.
In questa fase, dunque, sembra fondamentale che i genitori collaborino tra loro, in modo da offrirsi reciprocamente quegli strumenti utili a salvaguardare i diritti del minore ad una sana vita familiare.
Altra questione che potrebbe porsi in questo periodo è quella relativa alla coabitazione.
Può un genitore che ha lasciato casa decidere di ritornare a causa delle misure restrittive introdotte? Esiste un diritto in tal senso?
Se il problema sembra non porsi in maniera critica allorquando sia intervenuto un provvedimento omologato o una sentenza (in quel caso la risposta è chiaramente negativa), diversa è l’ipotesi in cui vi siano stati soltanto accordi di natura privata tra i coniugi in crisi.
Tuttavia, applicando anche qui i principi di diritto individuati nel corso degli anni dalla giurisprudenza di merito, si può affermare che gli accordi raggiunti tra i coniugi finalizzati a far cessare la coabitazione non possono essere revocati unilateralmente da una sola parte.
Non sembra perciò ammissibile che uno dei coniugi possa imporre all’altro di ripristinare la coabitazione adducendo come motivazione l’emergenza in atto.
Ad ogni modo, a scanso di inutili preoccupazioni, va precisato che una temporanea coabitazione di fatto non comporterebbe un’automatica riconciliazione dei coniugi rilevante per il diritto.
Tante volte si sente dire che il lavoratore, nei giudizi di lavoro, finisce con l’avere sempre ragione.
E’ pur vero, infatti, che nel nostro ordinamento giuridico è riconosciuto il principio del c.d. favor lavoratoris, per cui il sistema tende ad accordare maggiori garanzie verso la parte lavoratrice.
Tuttavia, può capitare che il datore di lavoro diventi vittima del proprio dipendente. Continua a leggere l’articolo per saperne di più.
Una delle ipotesi più frequenti è quella avente ad oggetto l’assistenza per gli anziani.
In quei casi, si assiste ad un vero e proprio ribaltamento dei ruoli, per cui la persona che svolge l’attività di badante si ritrova ad essere in una posizione di maggior vantaggio rispetto al datore di lavoro.
Il “favor lavoratoris,” dunque, non deve trarre in inganno: il lavoratore non ha in automatico sempre ragione.
A volte mal consigliati alcuni lavoratori potrebbero essere fuorviati e quindi indotti a fare causa al proprio ex datore di lavoro rivendicando voci e differenze retributive in realtà inesistenti.
Il datore ingiustamente attaccato, quindi, diventa vera e propria vittima del proprio (ex) lavoratore.
Ciò può avvenire per tante ragioni, ma è bene stare attenti: sebbene il giudizio incardinato dinanzi al giudice del lavoro sia molto più economico di un normale giudizio civile nella sua fase introduttiva; può tuttavia divenire altrettanto dispendioso in caso di soccombenza: se risulta che il lavoratore abbia torto, infatti, quest’ultimo dovrà comunque pagare le spese legali!
Bisogna quindi prestare attenzione e intentare giudizi soltanto quando effettivamente vi sono state violazioni delle norme in tema di lavoro che hanno danneggiato le (legittime) aspettative del lavoratore.
Nel fare ciò, non bisogna sottovalutare le condotte tenute in costanza del rapporto di lavoro.
Può capitare, infatti, che alcuni comportamenti posti in essere dal lavoratore siano a loro volta suscettibili di essere valutati dal giudice e, addirittura, divenire la base per pretese da parte del datore di lavoro.
Un caso del tutto analogo a quello appena descritto è stato portato all’attenzione, recentemente, del Tribunale di Napoli Nord.
Una lavoratrice che esercitava la professione di badante citava in giudizio un’anziana signora alle cui dipendenze sosteneva di aver lavorato per molti anni.
Riteneva, la lavoratrice, di essere stata pagata in maniera nettamente inferiore a quanto dovuto e di aver osservato orari di lavoro particolarmente severi. Chiedeva, dunque, circa 60mila euro di risarcimento.
Gli eredi dell’anziana signora “datrice”, nel frattempo deceduta, si difendevano in giudizio evidenziando
Chiedevano a loro volta, quindi, il pagamento dell’indennità di mancato preavviso.
Il giudice del lavoro ha appurato che in concreto la lavoratrice non era stata in grado di provare le modalità e gli orari di lavoro, respingeva così la domanda e contestualmente accoglieva quella degli eredi dell’anziana signora
La lavoratrice veniva, pertanto, condannata al versamento della somma dovuta a titolo di indennità di mancato preavviso, oltre alle spese legali!
Nel caso in esame sono emerse una serie di circostanze che hanno indotto il giudice a ritenere del tutto esagerate – e comunque non provate – le richieste della lavoratrice.
Il datore di lavoro vittima del proprio dipendente, aveva quindi ottenuto giustizia!
Clicca qui per leggere la sentenza di condanna del lavoratore e conoscere i dettagli della vicenda.
Pertanto, prima di intraprendere un giudizio di questo tipo, è importante valutare tutte le circostanze in maniera attenta e scrupolosa, senza farsi condizionare troppo da rivalse o ripicche personali.
Accade di frequente, purtroppo, che una persona possa venire a mancare per motivazioni tragiche, come un incidente stradale mortale.
Si pensi ad un’automobile che investe e uccide un anziano signore. I figli, ad esempio, potranno dimostrare di aver subito un danno derivante dalla perdita dell’amato genitore e, così, ottenere un risarcimento del danno.
Cosa accade, però, se a domandare il risarcimento sono i nipoti?
Hanno diritto al risarcimento i nipoti a seguito di un incidente stradale?
Continua a leggere l’articolo per capire quando, in caso di incidente stradale mortale, i nipoti hanno diritto al risarcimento.
Il danno di cui parliamo è rappresentato da quella profonda sofferenza e da quel patema psicologico e interiore che inevitabilmente accompagna un lutto.
Nel caso di un evento tragico, cagionato a causa di un illecito commesso da un soggetto terzo, è quindi possibile per i parenti sopravvissuti domandare il risarcimento per queste sofferenze.
Come è ovvio, però, ciò non è sempre possibile: occorre, prima di tutto, dimostrare l’effettiva esistenza di un legame familiare affettivo e reale.
Infatti, sebbene certi legami familiari si presumano essere connotati da sentimenti di vicinanza e affettività (si pensi al genitore coi figli), ciò non vale per tutti i tipi di rapporti familiari.
I nipoti, per esempio, potrebbero essere legatissimi ai propri nonni ma, magari, potrebbero anche non avere nessun tipo rapporto!
La dimostrazione di questo legame familiare, quindi, sarà tanto più stringente quanto più lontana sarà la relazione familiare.
Per quanto riguarda il legame nonno-nipote, comunque, la giurisprudenza di legittimità dominante non ha dubbi nel riconoscere, in linea generale, l’esistenza di un diritto, in capo ai nipoti, di ottenere il risarcimento del danno subito a seguito della perdita del proprio nonno.
In un passato relativamente recente era però richiesto che i nipoti convivessero con il nonno defunto; tale orientamento è oggi superato, per cui la convivenza non è più considerato un elemento determinante in base a cui stabilire se il rapporto parentale tra nonni e nipoti fosse o meno forte.
Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, ciò che rileva è l’intensità e la profondità del sentimento affettivo, cosa che trascende senz’altro la convivenza o altri fattori come l’età del nipote.
Anzi, la Cassazione ha più volte affermato come anche un nipote molto giovane possa provare un immenso dolore per la perdita del nonno non convivente proprio perché il rapporto, come detto, prescinde da simili situazioni.
D’altro canto, afferma la Cassazione, che il diritto dei nipoti ad ottenere il risarcimento per il danno sofferto a seguito della morte del nonno deriva dallo stessa Costituzione, la quale tutela la famiglia molto al di là del semplice e rigido grado di parentela.
Niente ostacoli, quindi, per i nipoti che intendano ottenere il risarcimento del danno.
Come abbiamo visto, q
Quindi, i nipoti – anche se non conviventi e pure se bambini – potranno domandare e ottenere il risarcimento del danno sofferto per la perdita familiare.
Sarà, dunque, necessario dimostrare il concreto rapporto parentale che vi era con il proprio nonno scomparso.
Per provare questo rapporto, quindi, potranno allegare nel corso del giudizio tutto quello che può tornare utile al fine di ricostruire il legame affettivo.
Grazie al nuovo art. 41-bis contenuto nel decreto legge n. 124/2019, la cui legge di conversione è entrata in vigore il 25 dicembre scorso, cosiddetto fondo “salva-casa”, il proprietario di un’abitazione che si dovesse trovare in difficoltà per il pagamento del mutuo, può beneficiare di una rinegoziazione o di un rifinanziamento con una banca terza, salvando così la casa dal pignoramento e dalla procedura esecutiva già avviata.
In estrema sintesi, il proprietario che intenderà salvare la casa dal pignoramento, potrà richiedere:
oppure
È previsto anche l’intervento del fondo di garanzia prima casa, sicché il debitore godrà dell’esdebitazione e quindi della liberazione da qualsiasi peso, salvando l’abitazione e liberandosi definitivamente dai debiti.
Per poter godere di questa misura, come già detto, devono ricorrere alcune condizioni.
In prima battuta occorre che il debitore sia qualificabile come “consumatore”, ossia una persona fisica che abbia contratto il mutuo al di fuori della propria attività lavorativa.
Inoltre è necessario che il debitore non abbia già avviato una procedura di risoluzione della crisi da sovraindebitamento.
Per quanto concerne il creditore, invece, questo deve essere un soggetto bancario e all’interno della procedura esecutiva non devono concorrere altri soggetti creditori.
Ci sono poi limiti anche per quanto attiene il debito contratto.
E’ infatti previsto che questo sia necessariamente un mutuo con garanzia ipotecaria concesso per l’acquisto dell’abitazione e che, in ogni caso, il debitore abbia almeno rimborsato il 10% del capitale originariamente finanziato.
Il debito, inoltre, non potrà essere superiore a 250.000 euro.
Altro elemento essenziale è che vi sia già la pendenza di una procedura esecutiva sul bene immobile ipotecato con il pignoramento notificato tra il 1 gennaio 2010 e il 30 giugno 2019: da qui il carattere senz’altro temporaneo ed eccezionale della misura.
Per salvare la casa dal pignoramento, inoltre, l’istanza dovrà essere presentata nel processo esecutivo entro il 31 dicembre del 2021.
L’importo offerto non dovrà essere inferiore al 75% del prezzo (in base all’asta o per mezzo di c.t.u.) mentre il versamento dell’importo rinegoziato o finanziato non potrà avvenire mediante dilazioni superiori ai 30 anni a decorrere dalla data di sottoscrizione dell’accordo.
Vale anche un ulteriore limite numerico: la dilazione non potrà superare, infatti, un tot di anni che sommato all’età del debitore superi il numero 80.
La norma, poi, prevede anche la possibilità per il debitore che non riuscisse ad ottenere la rinegoziazione o il rifinanziamento di rivolgersi a un parente o un affine entro il terzo grado; questo potrà infatti accedere al beneficio in luogo del debitore.
Il giudice, in questo caso, emanerà un decreto di trasferimento dell’immobile e per i successivi 5 anni il debitore e la sua famiglia conserveranno un diritto di abitazione.
Entro questo limite di tempo, il debitore potrà decidere di rimborsare integralmente quanto già versato alla banca dal parente o affine e, dunque, chiedere la retrocessione dell’immobile, accollandosi il residuo mutuo e liberando i familiari intervenuti.
In attesa degli ulteriori interventi normativi richiesti, che meglio specificheranno aspetti essenziali della procedura, questa misura sembra agevolare fortemente il debitore in difficoltà che intendesse salvare la casa dal pignoramento.
La malasanità e responsabilità medica ricorre in tutti quei casi in cui il medico arreca gravi lesioni al paziente o addirittura ne provoca la morte, ciò per negligenza, imprudenza o imperizia.
In quest’ipotesi si parla di “malasanità e responsabilità medica”.
In questi casi, il paziente stesso o i suoi eredi hanno il diritto a richiedere un risarcimento del danno.
Ma come fare? Dinanzi al soggetto danneggiato (o ai suoi eredi) si aprono infatti due possibili strade: quella penale e quella civile.
Il giudizio penale è finalizzato a provocare la punizione del medico che ha sbagliato e, soltanto in via subordinata, ad ottenere il risarcimento del danno.
Al contrario, l’azione civile è invece esclusivamente volta ad ottenere il risarcimento economico.
Inoltre, è da evidenziare come non sempre l’errore medico integri anche un reato: per esempio, la legge prevede che il sanitario non sia punibile penalmente quando, pur avendo commesso uno sbaglio, abbia però rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guide scientifiche o dalla prassi medica.
Rispetto al giudizio penale, poi, il giudizio civile appare essere più conveniente per il paziente:
Dunque, nel campo civile sarà più facile dimostrare il danno patito dal paziente.
In molti casi, quindi, potrebbe essere più vantaggioso proporre un giudizio civile il cui unico scopo è quello di ottenere un ristoro economico per i danni subiti.
Infatti, tale azione va proposta più convenientemente nei confronti della struttura sanitaria e non contro il singolo medico.
La legge favorisce la proposizione di tutte le pretese risarcitorie verso la struttura sanitaria e l’assicurazione di quest’ultima.
Disincentivando, invece, l’azione contro il singolo sanitario,
È infatti molto più conveniente per la vittima di malasanità citare in giudizio la struttura sanitaria e la sua assicurazione.
Questo perché il rapporto giuridico che lega la clinica al paziente si considera come vero e proprio rapporto contrattuale.
In questo caso, dunque, vi sono molteplici vantaggi:
Al contrario, l’azione civile intentata direttamente contro il medico appare essere molto meno vantaggiosa: innanzitutto il rapporto sarà di natura extracontrattuale, pertanto la prescrizione del diritto decorrerà in soli cinque anni anziché dieci.
Per di più, poi, l’onere della prova graverà proprio su chi agisce, ossia il paziente, il quale dovrà fornire non solo la prova dell’errore medico ma anche del suo nesso causale rispetto al danno subito.
Nonostante la giustizia civile sia alquanto lenta, l’introduzione della c.d. Leggi Gelli ha esteso in questa materia l’utilizzo dello strumento dell’accertamento tecnico preventivo con finalità conciliative, detto A.T.P.
Grazie a tale strumento sarà possibile chiedere al tribunale una preliminare valutazione relativa al nesso tra la condotta medica e il danno patito dalla vittima.
Così, all’esito dell’accertamento, verrà formata una vera e propria “prova” che potrà essere utilizzata successivamente sia per una trattativa stragiudiziale con la struttura sanitaria e il proprio assicuratore, sia in un eventuale processo civile.
Nella prassi, un accertamento tecnico favorevole al paziente dovrebbe per lo più disincentivare la struttura sanitaria dall’affrontare un giudizio civile.
Comunque, anche qualora la struttura volesse perseguire nel giudizio di merito civile, il paziente partirà avvantaggiato potendo adoperare l’accertamento tecnico preventivo come prova nel giudizio di merito.
Tuttavia, poiché di solito è l’assicurazione a procedere al pagamento dei risarcimenti danni, va segnalata la tendenza delle compagnie a schermarsi rispetto alle tante richieste che pervengono.
Rispetto ad esse, infatti, le assicurazioni hanno nel tempo adottato dei sistemi per scoraggiare la soluzione extragiudiziale delle controversie in tema di responsabilità medica.
Ad esempio, mediante la predisposizione di contratti assicurativi con le strutture sanitarie presentanti franchigie molto alte, che consentono l’intervento dell’assicurazione soltanto a seguito del loro superamento.
Ciò potrebbe spingere la struttura sanitaria a voler guadagnare tempo e dunque a proseguire nel giudizio civile.
In ogni caso, grazie alle recenti novità legislative, la strada del giudizio civile sembra essere comunque quella più adeguata e conveniente per il paziente al fine di ottenere il risarcimento del danno rispetto ai casi di malasanità e responsabilità medica.
A seguito del lutto di un proprio caro, può capitare che il testamento lasciato dalla persona deceduta si rilevi troppo “generoso” nei confronti di qualche parente superstite.
Spesso succede che parenti disamorati, spinti da interessi economici, riescano a indurre a far testamento persone non più in grado di esprimere la propria volontà.
Ovviamente a loro esclusivo vantaggio.
A questo riguardo il nostro codice civile, all’art. 591, prevede alcune ipotesi di “incapacità” a testare, ipotesi che determinano l’invalidità del testamento.
Ad esempio è nullo il testamento lasciato
- dai minori d’età,
- dagli interdetti per infermità di mente,
- e da coloro i quali, pur non essendo stati interdetti, siano stati comunque incapaci di intendere e di volere al momento di testare e, ciò, per qualsiasi causa, anche se temporanea e non per forza patologica in senso medico.
Nella categoria da ultimo menzionata (ossia la terza ipotesi prevista all’art. 591 c.c.) vi rientrano tutti coloro che non sono stati soggetti ad interdizione o inabilitazione, ma che comunque abbiano presentato, sotto un profilo
un turbamento dei normali processi di formazione ed estrinsecazione della volontà.
Si parla di qualsiasi condizione in grado di inibire nella persona che fa testamento tutte quelle capacità di “autodeterminarsi coscientemente e liberamente”.
La giurisprudenza ravvede questa “incapacità” in tutte quelle ipotesi in cui un’infermità, o anche un’altra causa, turbi il normale processo intellettivo e cognitivo del soggetto, privandolo della consapevolezza riguardo il compimento dei propri atti.
Pur annoverando quindi un nutrito numero di situazioni che possono rendere invalido il testamento, oltretutto non predeterminate dalla legge, bisogna comunque registrare come la giurisprudenza limiti in maniera alquanto restrittiva l’applicazione di tale norma.
Ai fini della dichiarazione di invalidità del testamento, infatti, non è sufficiente una semplice alterazione del processo formativo della volontà, ma occorre che lo stato psico-fisico dello scomparso sia stato tale da sopprimere del tutto la capacità di determinarsi liberamente e coscientemente.
Non una semplice alterazione, dunque, ma un qualcosa di più.
Ad esempio, non è stato ritenuto patologico l’impulsivo e repentino cambiamento di idea del testatore il quale, venuto a conoscenza di un torto subito e spinto dall’ira e dal rancore, aveva modificato le proprie ultime volontà escludendo alcuni parenti (cfr., Cass., sez. II, 19 marzo 1980, n. 1851).
L’azione dell’art. 591 c.c. consente quindi di far dichiarare invalido il testamento perché, appunto, non sorretto da un’autentica volontà.
Ma come si dimostra che un soggetto defunto sia stato incapace di intendere e di volere proprio nel momento in cui, magari anni prima, aveva fatto testamento?
La giurisprudenza su questo punto consente a chiunque ne abbia interesse di agire e provare tale condizione anche mediante presunzioni semplici, vale a dire quelle ricostruzioni logiche in base a cui è possibile “desumere”, con un certo grado di sicurezza, l’incapacità del soggetto.
Si pensi, per esempio,
Nei casi in cui il testamento da impugnare sia stato pubblicato, poi, ci si potrebbe chiedere che ruolo rivesta il notaio.
Ebbene, è opportuno osservare come il notaio si limiti ad un accertamento soltanto “immediato” dei soggetti che decidono di testare
Pertanto, è ben possibile, che l’ufficiale rogante non comprenda pienamente, nel poco tempo a disposizione, le reali capacità di intendere e di volere del soggetto.
Dunque, quanto viene dichiarato dal notaio è limitato esclusivamente all’apparenza di quello che avviene alla sua presenza, senza che ciò possa impedire un accertamento intorno alle concrete capacità di intendere e di volere del testatore (cfr., Cass., sez. II, 4 maggio 1982, n. 2741).
L’azione in esame, volta a far dichiarare l’invalidità del testamento, comunque, va proposta entro 5 anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
E’ necessaria l’assistenza di un legale di fiducia.
La diffamazione può essere causa di grande sofferenza psicologica per tutti coloro che vedono minato il proprio onore e la propria reputazione.
La diffamazione, come ben noto, è un reato previsto e punito dall’art. 595 c.p., il quale commina sanzioni alquanto gravose che prevedono la reclusione fino a un anno di reclusione.
Tuttavia, oltre al profilo penalistico, bisogna tenere in considerazione anche il danno da diffamazione in sede civile.
E’ infatti possibile, per chiunque sia stato vittima di diffamazione, non soltanto querelare la persona autrice della diffamazione, ma anche chiedere il risarcimento del danno da diffamazione in sede civile, costituendo infatti la diffamazione un illecito extracontrattuale.
Del resto, così come la cronaca insegna, nell’era tecnologica è molto semplice diventare vittima di una diffamazione.
Accanto alle classiche ipotesi della stampa o della trasmissione radio e televisiva, basti pensare alla fluidità e accessibilità dei mezzi di comunicazione elettronica, quali messaggistiche e social network.
Tizio, residente a Napoli, viene menzionato durante una trasmissione televisiva e in quella sede malamente diffamato.
Nel corso della trasmissione, oltretutto, vengono rilevate alcune informazioni sensibili inerenti la sua vita privata.
Il programma tv, molto seguito, viene trasmesso da un’emittente privata con sede a Milano.
Appare evidente come ricorrano tutti gli elementi propri del reato di diffamazione e così pure dell’illecito civile extracontrattuale.
Tuttavia, per Tizio, possono aprirsi scenari alquanto differenti: dovrà egli avvalersi di un avvocato di Milano o di un avvocato di Napoli?
Tizio potrà scegliere se iniziare un giudizio penale e/o intentare una causa civile separatamente e chiedere in tale sede il danno da diffamazione.
E ciò, in un caso come quello descritto, può avere importanti risvolti economici.
Mentre infatti in sede penale bisognerà guardare al luogo di consumazione del reato di diffamazione, la competenza inerente il giudizio civile seguirà criteri differenti.
La determinazione del foro competente per il reato di diffamazione, infatti, segue le regole del diritto penale.
Al contrario l’individuazione del foro competente per l’illecito civile da danno di diffamazione segue, come è ovvio, le regole civilistiche.
Fino ad un recente passato, la giurisprudenza maggioritaria distingueva il peculiare danno da diffamazione causato da una pubblicazione a mezzo stampa, dagli altri casi.
Nell’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa la competenza si radicava nel luogo in cui era avvenuta la prima stampa.
Con riflessi molto svantaggiosi per il danneggiato qualora la stampa fosse avvenuta in città distanti.
In tutti gli altri casi la competenza andava ricercata nel luogo ove si era realizzato l’evento lesivo.
Quindi, nel luogo dove il si erano realizzate le “conseguenze” dannose della diffamazione.
Appare evidente come tale distinguo generasse un’ingiusta disparità di trattamento.
Non a caso, quindi, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 21661 del 13.10.2009, hanno stabilito che:
“nel giudizio promosso per il risarcimento dei danni conseguenti al contenuto diffamatorio di una trasmissione televisiva e, più in generale, di quelli derivanti dal pregiudizio dei diritti della personalità recati da mezzi di comunicazione di massa, la competenza per territorio si radica, in riferimento al “forum commissi delicti” di cui all’art. 20 c.p.c., nel luogo del domicilio (o della sede della persona giuridica) o, in caso di diversità, anche della residenza del soggetto danneggiato.
Tale individuazione – che corrisponde al luogo in cui si realizzano le ricadute negative della lesione della reputazione – consente, da un lato, di evitare un criterio “ambulatorio” della competenza, potenzialmente lesivo del principio costituzionale della precostituzione del giudice, e, dall’altro, si presenta aderente alla concezione del danno risarcibile inteso non come danno-evento, bensì come danno-conseguenza, permettendo, infine, di individuare il giudice competente in modo da favorire il danneggiato che, in simili controversie, è solitamente il soggetto più debole.”.
Dinanzi a un’intollerabile e grave violazione del proprio diritto all’onore e al decoro, come quella descritte nel caso proposto, è quindi sempre possibile ricorrere alla tutela giudiziaria, almeno sotto il versante civilistico, senza dover avviare costosi giudizi in fori lontani dal proprio domicilio o residenza.
Capita spesso che un matrimonio felice possa nel tempo naufragare.
A quel punto la separazione può diventare una scelta obbligata, anche se, a pagarne il prezzo, molte volte sono proprio i figli, peggio ancora se minorenni.
Di solito le norme dei vari ordinamenti giuridici più avanzati che regolano l’affidamento dei minori, compreso quello italiano, consentono di limitare al minimo le sofferenze e i disagi per i più piccoli.
Se a ciò si unisce un comportamento saggio e assennato da parte dei genitori, il rischio per i bambini può essere totalmente neutralizzato.
Ma cosa accade quando uno dei genitori si sposta – legalmente – in un altro paese dell’Unione Europea portando con sé i bambini?
Quale giudice, a quel punto, sarà chiamato a decidere su tutte quelle questioni inerenti i minori, come ad esempio le modalità dell’affidamento?
Continua a leggere l’articolo per saperne di più sull’affidamento di minori e trasferimento all’estero.
Si faccia l’esempio di una famiglia composta da madre, padre e due bambini di 6 e 8 anni stabilmente residenti in Spagna.
I genitori decidono di divorziare e, dopo qualche tempo, la madre, affidataria privilegiata dei piccoli, decida di trasferirsi in Italia portando con sé i bambini.
Il padre viene messo a conoscenza del trasferimento e accetta la richiesta.
Tuttavia, dopo un paio di anni, la madre decide di domandare al giudice la modificazione di quei patti originariamente stabiliti in sede di separazione (in Spagna) e chiedere l’affidamento esclusivo.
Chi dovrà decidere a quel punto?
Il problema potrebbe sembrare di poco conto ma nella realtà dei fatti diventa molto insidioso e fonte di angosce.
Si pensi alla difficoltà di reperire un avvocato in un altro paese, a pagare le spese del viaggio, degli spostamenti, alla difficoltà di raccordare gli impegni di lavoro o semplicemente allo stress derivante da un via vai internazionale!
Tecnicamente si parla di “giurisdizione”, parola con la quale più semplicemente si suole indicare la possibilità, per il giudice, di decidere e applicare le norme giuridiche.
In termini più immediati, quello descritto sopra è un classico esempio di problema di giurisdizione, ossia un problema afferente la difficoltà di individuare correttamente il giudice cui rivolgersi.
Nell’esempio proposto sopra, quello italiano o quello spagnolo?
A questo punto non resta che rispondere al quesito iniziale.
Quale è il giudice cui rivolgersi nel caso in cui ci si trasferisca in un altro paese europeo con i propri figli minori (legalmente) e si voglia, ad esempio, modificare i patti stabiliti in sede di separazione e/o divorzio?
La domanda trova risposta immediata all’interno di un regolamento europeo, precisamente il Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.
Tale norma ha, dunque, affrontato esplicitamente il problema dell’affidamento di minori e trasferimento all’estero
L’art. 8 di tale Regolamento, rubricato “competenza generale”, stabilisce:
“1. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono aditi.
2. Il paragrafo 1 si applica fatte salve le disposizioni degli articoli 9, 10 e 12.”
Fatte salve le eccezioni richiamate al secondo comma dell’articolo, dunque, la questione sulla “giurisdizione” si risolve per lo più nel senso di individuare la competenza corretta nel giudice del paese ove il minore risiede stabilmente.
E ciò vale per tutte quelle questioni riguardanti, per l’appunto, la responsabilità genitoriale.
Nell’esempio più sopra riportato, quindi, il giudice competente ai sensi del Regolamento CE n. 2201/2003 sarebbe senz’altro quello del paese ove i piccoli si sono trasferiti con la madre, vale a dire l’Italia.
Questa previsione, così come tante altre, più o meno recenti, disseminate nel diritto di famiglia, si coglie al meglio proprio in una prospettiva di maggior tutela e garanzia degli interessi dei minori, i quali non possono di certo divenire oggetto di schermaglie e di rivalsa da parte degli adulti.
A tale riguardo si legga pure il punto 12 nella parte introduttiva del Regolamento, il quale recita:
“È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale.”
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